PEREJE-TRIACASTELA
29/07/2002
Lo zaino.
Non voglio qui stare ad elencare ciò che conviene metterci dentro (lo farò altrove), ma certo è che quando si è in viaggio ogni cosa sembra di troppo. Troppo poco quando parti da casa e pensi che per un mese la tua casa sarà quella. Troppo quando cominci a camminare ed ogni etto in più è uno spillo piantato nelle tue spalle. Essere oculati e sobri. Questo è il consiglio che posso dare. Facile a dirsi ma nello zaino non deve mancare nulla e deve pesare il meno possibile. Con il proprio zaino si crea un "legame di complicità", come la lumaca con il proprio guscio. Un peso, insostituibile, che non si vede l'ora di scaricarsi di dosso, ma che ti manca irrimediabilmente quando non è nei tuoi pressi. Quello che si può suggerire è di prendere uno zaino che ti si adatti addosso il più possibile e non partire dopo averlo appena comprato. Al Cebreiro ci hanno dato una preghiera sullo zaino, la Mochilla. Che fa parte del Camino, della sua parte di espiazione tra l'altro, come le pietre portate o come le preghiere.
Oggi siamo veramente partiti in notturna. La stretta valle intorno al Valcarce tiene il sole e la sua luce nascosta fino a tardissimo. La strada corre lungo la Nazionale che qui, in attesa della conclusione dei lavori alla autostrada che ci stà sopra, funge da autopista. I camion ci sfrecciano accanto ed oltre che brutto è anche pericoloso. Vega de Valcarcel, ormai enclave allega in terra di Leon, ci accoglie ancora addormentata. Soltanto un piccolo bar ci da un po' di sveglia sotto forma di colazione, appena entrati in paese. Di qui ripartiremo per gli undici chilometri fino al Cebreiro con una grossa incognita: Graziano ha di nuovo malle all'anca (e qualcuno crede ancora all'Aulin .) e dice che dovrà fermarsi per un po' di giorni. Mi dispiace ora che stò bene. Ma dopo averci pensato qualche minuto non posso accettare la sua proposta. Mi dice di continuare da solo. Non è neanche una cosa da prendere in considerazione: siamo partiti in due ed in due arriveremo. Si riparte. Fortuna che il servizio taxi da Pereje ci sgrava degli zaini: non sarà da veri pellegrini ma per mezza giornata, fino al Cebreiro, le nostre malridotte spalle possono ringraziare. La salita è abbastanza dura ma non impossibile. Saliamo tra un bel bosco di querce e castagni e fra molte felci. La strada è all'inizio asfaltata, poi si getta in un duro sentiero che arriva a La Faba, dove beviamo, prendiamo fiato e ripartiamo: siamo solo a metà dell'ascensione. La vegetazione si fa più rada. Lasciate le ultime case entriamo nella nebbia che ricopre la cima: l'atmosfera è da ciclismo eroico. L'ultimo sforzo e O Cebreiro, ormai in Galizia, apre le sue braccia, con la sua chiesetta tipicamente montana, il miracolo del pane e del vino, l'Albergue dove ritroviamo i nostri zaini: il Cebreiro è estremamente turistico, solo ristoranti, una bottega di souvenir, un monumento. Ne approfittiamo per mangiare (ore 11: due uova al tegamino con abbondante prosciutto per uno ed una bottiglia di vino) per trovare le energie giuste per continuare. Scambiamo due chiacchiere con una suora ed un prete in borghese di una parrocchia milanese. Graziano stà molto meglio e decidiamo così di andare avanti. Si cammina lungo la strada e questo ci da tempo di osservare le verdi vallate galleghe che, a detta di molti, ricordano l'Irlanda. Si esce su di un sentiero parallelo che ci fa passare attraverso ai paesi: sembra di essere più in pieno Kuridstan che in Spagna: sterco ovunque, case cadenti, cani che razzolano nel sudicio ed anche qualche carcassa di animale abbandonata qua e la. La gente, poca, e le donne, in particolare, si chiudano dietro i propri scialli. Così Hospital de la Condesa, così Alto dei Pojo, così Fontefria. Finalmente si comincia a scendere e la nebbia lascia il posto ad un cielo variabile e ad un clima in cui il veto ti fa passare sulla schiena anche qualche brivido di freddo. La strada resta piacevole, a parte alcuni brevi tratti, e la discesa praticamente non impegnativa. I conti delle nostre cartine sono completamente sballati, ma tanto il nostro problema non cambia: ormai bisogna arrivare a Triacastela. Intorno alle 17.30, ormai in una valle in cui pullulano numerosi alberi secolari, As Asantes: peggio degli altri. Odore insopportabile, in alcune case manca anche la luce. Triacastela, dove ci fermiamo, è poco dopo. L'albergo all'ingresso del paese si adegua perfettamente alla situazione (donativo libero, no cucina, docce sporche): il dispiacere maggiore è che l'accoglienza è tuttaltro che quella attesa da chi ha fatto oltre 40 chilometri nella nebbia e nella merda!! Dormiamo per terra, sul duro! Pazienza. Una massima scritta sulle porte di tutti gli Albergue è che la differenza tra un turista ed un pellegrino è che il primo esige ed il secondo ringrazia. Ci adeguiamo. Sarà l'espiazione per non aver portato la Mochilla sul Cebreiro. Sinceramente ne avrei fatto volentieri a meno! Domani è un altro giorno.